CONVEGNO DIRITTO LAVORO C/O TRIBUNALE DI TORINO: LA DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI ALLA LUCE DEL DECRETO DIGNITÀ E DELLA PRONUNCIA DELLA CORTE COSTITUZIONALE 194/2018

4 dicembre 2019

Anche con riguardo alla qualifica di dirigente, il diritto del dipendente all’attribuzione della qualifica medesima, in conseguenza dello svolgimento in concreto delle relative mansioni, non può restare escluso dalla clausola contrattuale che preveda in proposito la necessità di un formale riconoscimento da parte del datore di lavoro, stante la nullità di un tale patto.

Così ha statuito la Corte di Cassazione, con la sentenza redatta dalla Sezione Lavoro n. 20805 in data 14 ottobre 2016.

convegno

NULLA LA CLAUSOLA DEL CCNL CHE RIMETTA ALLA FORMALE INVESTITURA DEL DATORE DI LAVORO L’ATTRIBUZIONE DELLA QUALIFICA DI DIRIGENTE.

Anche con riguardo alla qualifica di dirigente, il diritto del dipendente all’attribuzione della qualifica medesima, in conseguenza dello svolgimento in concreto delle relative mansioni, non può restare escluso dalla clausola contrattuale che preveda in proposito la necessità di un formale riconoscimento da parte del datore di lavoro, stante la nullità di un tale patto. Così ha statuito la Corte di Cassazione, con la sentenza reda dalla Sezione Lavoro n. 20805 in data 14 ottobre 2016.

IL NUOVO ART. 92 C.P.C. AL VAGLIO DELLA CONSULTA: LEGITTIMA LA COMPENSAZIONE NON DISCREZIONALE DELLE SPESE?

DI AVV. CLAUDIO BECHIS
Tribunale Torino, 30 gennaio 2016 – Ciocchetti
Spese processuali – Compensazione – Ipotesi – Tassatività – Potere discrezionale del giudice – Insussistenza – Violazione dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, del diritto di agire in giudizio e del principio del giusto processo – Questione di legittimità costituzionale

(Cost. artt. 3, comma 1, 24 comma 1 e 111, comma 1; C.p.c. artt. 91, comma 1 e 92, comma 2)

E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione della legittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2, c.p.c., laddove – irragionevolmente, nonché in contrasto con il principio di uguaglianza, il diritto di agire in giudizio e il principio del giusto processo – individua in via tassativa le ipotesi di compensazione delle spese della lite, senza più ammettere il potere discrezionale del giudice di darvi corso per gravi ed eccezionali ragioni (1).

Omissis. – Fatto:

Il ricorrente è socio lavoratore della Cooperativa convenuta, con mansioni di addetto al controllo ingressi ed alla viabilità e con rapporto di lavoro subordinato regolato dal CCNL Coop. Terziario e Servizi [omissis] 2001, quindi dal CCNL Coop. Multiservizi [omissis] 2004 e infine dal CCNL Coop. Vigilanza e Servizi Fiduciari [omissis] 2013.

Contesta in giudizio i parametri retributivi correlati a tali CCNL, che ritiene non conformi al combinato disposto dell’art. 36 Cost., dell’art. 3, comma 1, l. 3 aprile 2001, n. 142 e dell’art. 7, comma 4, d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, conv. in l. 28 febbraio 2008, n. 31, norma quest’ultima che impone alle cooperative l’applicazione dei soli CCNL stipulati dalle “organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”.

Chiede pertanto, in via principale, l’applicazione a proprio beneficio del CCNL Multiservizi Legacoop. [omissis], con conseguente condanna della resistente al pagamento dell’importo di € 30.040,53 lordi, a titolo di differenze retributive [omissis].

Chiede, in subordine, ove il Tribunale non ritenga fondata l’applicazione dell’invocato CCNL [omissis], la condanna della convenuta al pagamento dell’importo di € 7.809,07, a titolo di integrazione contrattuale delle indennità legali di infortunio e di malattia, computato con riferimento [ai CCNL applicati dalla resistente: n.d.e.] [omissis].

La convenuta chiede a sua volta il rigetto del ricorso ed osserva, quanto alla domanda principale, che la retribuzione erogata al lavoratore rispetta i parametri normativi dal medesimo invocati, avuto riguardo: a) al livello della retribuzione erogatagli dal gennaio 2014, in conformità con il CCNL Vigilanza e Servizi Fiduciari 2013 [omissis], da utilizzare come parametro di congruità per il periodo antecedente; b) alle tabelle retributive del CCNL per i dipendenti da proprietari di fabbricati [omissis].

Quanto poi alla domanda subordinata, osserva che l’esclusione dell’integrazione contrattuale delle indennità legali di malattia e di infortunio fa seguito alla delibera assembleare 20 giugno 2011, da ritenere legittima giacché accompagnata dalla temporanea messa in stato di crisi ed approvata con l’obiettivo di garantire la sopravvivenza della compagine sociale, in ragione del forte indebitamento esistente verso gli istituti di credito, in conformità con l’art. 6, comma 1, lett. d) ed e), l. 3 aprile 2001, n. 142.

A seguito dell’espletamento di CTU contabile, che prende in considerazione, ai fini del giudizio di congruità retributiva, i due CCNL indicati dalla resistente, e della successiva discussione orale, il Tribunale pronuncia sentenza non definitiva, con la quale decide l’intero merito della controversia, con il rigetto sia della domanda principale che di quella subordinata [omissis].

Dispone nel contempo, con separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio per la definizione della questione residua, afferente il regolamento delle spese di lite e, in tale sede, prospetta d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2, c.p.c. (nel testo modificato dall’art. 13 d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. con modif. in l. 10 novembre 2014, n. 162), in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. [omissis].

Diritto:

Con sentenze 30 luglio 2008, nn. 20598 e 20599, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione compongono il contrasto esistente nell’ambito della stessa Corte, [omissis] stabilendo il seguente principio di diritto, così poi riassunto nella sentenza della stessa Corte 27 aprile 2009, n. 9886: «nel regime anteriore a quello introdotto dall’art. 2, comma 1, lett. a), L. 28 dicembre 2005, n. 263, il provvedimento di compensazione parziale o totale delle spese per “giusti motivi” deve trovare un adeguato supporto motivazionale, anche se, a tal fine, non è necessaria l’adozione di motivazioni specificamente riferite a detto provvedimento purché, tuttavia, le ragioni giustificatrici dello stesso siano chiaramente e inequivocabilmente desumibili dal complesso della motivazione adottata a sostegno della statuizione di merito (o di rito) [omissis]».

A seguito dell’art. 2 l. n. 263/2005 cit., il testo originario dell’art. 92, comma 2, c.p.c. viene modificato con l’introduzione di una locuzione aggiuntiva, la quale stabilisce che i “giusti motivi” devono essere “esplicitamente indicati nella motivazione” [omissis] cosicché tali ragioni non possono più essere desunte [omissis] dall’impianto motivazionale della decisione e quindi con un riscontro effettuato per relationem [omissis] [né: n.d.e.] può più ritenersi soddisfatto l’obbligo di motivazione quando la compensazione si fondi ad esempio sulla “peculiarità della fattispecie”, che non consente il controllo sulla congruità delle ragioni poste alla base di tale decisione, neppure se integrate dal percorso motivazionale (così Cass. 30 maggio 2008, n. 14563 e Id. 18 dicembre 2007, n. 26673). Tale modifica appare del tutto giustificata sul piano costituzionale, tenuto conto dalla parte motiva dell’ordinanza della Corte Costituzionale 21 dicembre 2004, n. 395, nella precisa e convincente lettura che ne danno poi le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con le citate decisioni [omissis], laddove evidenziano [che: n.d.e.] [omissis] «l’art. 92 c.p.c. [omissis] attribuisce al giudice un potere discrezionale, e non già arbitrario, di derogare alla regola legale imperniata sul principio della soccombenza (art. 91 c.p.c.) [omissis] ».

La giurisprudenza della Corte di Cassazione [omissis] – formatasi sia sotto la vigenza del testo originario dell’art. 92, comma 2, c.p.c. sia dopo la modifica introdotta [omissis] – ritiene validi motivi di compensazione i seguenti casi: i) la non univocità della giurisprudenza, soprattutto di merito, sull’interpretazione di una particolare espressione normativa (Cass. 9 luglio 1993, n. 7535); ii) la particolare complessità e la novità delle questioni trattate (Cass. 23 maggio 2003, n. 8210; Id., S.U., 15 novembre 1994, n. 9597) [omissis]; iii) la peculiarità e la complessità delle questioni trattate (Cass. 1 dicembre 2003, n. 18352) [omissis]; iv) il rilevante divario nel quantum tra petitum originario e statuizione giudiziale di accoglimento della domanda (Cass., 6 dicembre 2003, n. 18705); v) il concorso della parte totalmente vincitrice con la controparte soccombente nella stipula di un accordo, oggetto della lite, contra legem (Cass. 28 novembre 2003, n. 18238); vi) la corresponsabilità nella lite della parte giudizialmente vittoriosa con la controparte soccombente, in ragione del carattere non inequivoco della pattuizione oggetto della vertenza [omissis] (Cass. 28 novembre 2003, n. 18238); vii) l’affidamento della parte soccombente (la P.A.) nelle risultanze di un pubblico registro [omissis] (Cass. 21 gennaio 2013, n. 1371). Le sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione [omissis] più volte citate, indicano inoltre, “a titolo meramente esemplificativo”, i seguenti casi di compensazione delle spese per “giusti motivi”: [omissis] viii) le oggettive difficoltà degli accertamenti in fatto, idonee ad incidere sull’esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti; ix) il comportamento processuale della parte ingiustificatamente restia a formulare proposte conciliative plausibili, in relazione alle concrete risultanze processuali, ecc.

A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 45, comma 11, l. 18 giugno 2009, n. 69, la locuzione utilizzata dall’art. 92, comma 2, c.p.c. (nel testo modificato nel 2005), per regolare la compensazione delle spese, dopo l’ipotesi della soccombenza reciproca, e cioè: “o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione”, viene sostituita dalla seguente: “o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione”.

Ad avviso del Tribunale con tale modifica si è inteso fornire una base legale alla giurisprudenza della Corte di Cassazione [omissis], che, nel corso del tempo, viene individuando in modo rigoroso i casi di possibile compensazione delle spese di lite [omissis]. Con il che si poteva ritenere che le modifiche alla norma processuale in esame fossero pervenute [omissis] ad una ragionevole conclusione, avendo posto rimedio alla prassi di una parte della giurisprudenza, che aveva utilizzato motivi di compensazione del tutto privi di consistenza o tautologici [omissis].

A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 13 d.l. n. 132/2014 cit., [omissis] scompare [omissis] la previsione di carattere “aperto” che da 150 anni contrassegna il regime della compensazione delle spese di lite [omissis] per lasciare invece posto ad una previsione di tipo “tassativo”; ristretta peraltro a due soli casi (oltre a quello della soccombenza reciproca, esistente dal 1940) e cioè “assoluta novità della questione trattata” e “mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti”, al di fuori dei quali casi non è quindi consentita al giudice la compensazione delle spese di lite.

La relazione ministeriale al d.d.l. di conv. d.l. cit. spiega così il motivo di tale scelta riformatrice: «[omissis] Nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto ragione. Con la funzione di disincentivare l’abuso del processo è previsto che la compensazione possa essere disposta dal giudice solo nei casi di soccombenza reciproca ovvero di novità della questione decisa o mutamento della giurisprudenza. Stante il particolare affidamento che la parte che introduce il giudizio fa nel regime delle spese, si è ritenuto opportuno stabilire che la previsione in parola si applichi ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione del decreto».

[Omissis] Si tratta allora di verificare se lo strumento utilizzato dal legislatore [omissis] sia adeguato o meno rispetto all’obiettivo proposto, avuto riguardo ai principi contenuti nella Carta costituzionale; e in proposito si formulano i seguenti sette rilievi.

I) La materia, come storicamente affrontata dalla giurisprudenza di legittimità, pone in luce un’ampia casistica, quanto alle ragioni ritenute meritevoli di compensazione delle spese; cosicché, in ragione di tale varietà, la materia non si presta, per definizione, ad un intervento normativo di carattere tassativo, ma se mai di carattere esemplificativo. In tal senso si esprime del resto la Corte di Cassazione, con sentenza 6 dicembre 2003, n. 18705, ove si legge che “i giusti motivi si sottraggono a qualunque elencazione che non sia meramente esemplificativa”; affermazione, questa, che richiama, quali precedenti, le sentenze della stessa Corte 22 aprile 2000, n. 5305 e 9 ottobre 1985, n. 4918 [omissis].

II) L’art. 92, comma 2, nel testo attualmente vigente [omissis], ha una funzione di tipo deflattivo [omissis] e a tal fine si prevede che debbano essere sanzionati con la condanna alle spese invariabilmente tutti i casi rientranti nella regola generale della soccombenza, salvo tre, che rivestono quindi carattere tassativo [omissis].

III) È indubbio che il legislatore, nel dettare le norme processuali, “gode di un’ampia discrezionalità”, come affermato più volte dalla Corte Costituzionale, con sentenze n. 59 del 1999, n. 158 del 2003, n. 446 del 2007, n. 270 del 2012 e, da ultimo, n. 157 del 2014 [omissis].

IV) Se questo è vero in linea di massima, esistono però dei limiti sul piano costituzionale che vanno in ogni caso rispettati, dal momento che la discrezionalità legislativa nella materia in esame non può ritenersi illimitata [omissis].

V) Ad avviso del Tribunale i citati parametri costituzionali paiono lesi dalla regolamentazione attualmente vigente, in quanto essa isola tre ipotesi di compensazione, la prima dal 1940 presente nella norma e le altre due scelte, senza dubbio, nell’ambito della casistica individuata o trattata dalla Corte di Cassazione nel periodo antecedente a tale modifica, separandole però dalle altre individuate dalla stessa Corte [omissis], la cui gravità (ovverosia meritevolezza di tutela) ed eccezionalità (e cioè idoneità a costituire eccezione alla regola generale della soccombenza) appare pur sempre tale da giustificare la compensazione parziale o totale delle spese, al pari delle due prescelte dall’ultima novella [omissis].

VI) Si scorge qui, in modo del tutto evidente e chiaro, che se il fine della nuova normativa, come dichiarato dal Ministro competente, è quello di contrastare una prassi giudiziaria che continua ad essere incentrata sul potere discrezionale di compensazione, destinata a sua volta ad incentivare la litigiosità, lo strumento utilizzato [omissis] appare lesivo: 1) del principio di ragionevolezza delle scelte legislative (art. 3, comma 1, Cost.), dal momento che: a) la pregressa modifica del 2009 è già del tutto sufficiente a scoraggiare eventuali abusi, da parte del giudice, nell’uso dello strumento della compensazione, contenendo essa già una regolamentazione del tutto rigorosa ed appropriata; b) sussiste inoltre discrepanza tra il fine perseguito (contrasto con una prassi giudiziaria in atto) e lo strumento normativo utilizzato (limitazione estrema ed oltre ogni misura delle ipotesi di compensazione), che appare pertanto viziato per eccesso di potere legislativo; c) tale fine avrebbe del resto potuto essere perseguito con l’introduzione di un rimedio processuale apposito e veloce, come quello del reclamo [omissis]; 2) del principio di eguaglianza (art. 3, comma 1, Cost.), attese le situazioni prese in considerazione dalla norma, raffrontate – quale tertium comparationis – con quelle da essa escluse, quali (a titolo esemplificativo) quelle individuate dalla giurisprudenza di legittimità [omissis]; 3) del diritto di agire giudizialmente (art. 24, comma 1, Cost.), dal momento che tende, in linea di fatto, a scoraggiare in modo indebito l’esercizio dei diritti in sede giudiziaria, divenendo così uno strumento deflattivo (e punitivo) incongruo, ad esempio nelle ipotesi in cui la condotta della parte (poi risultata soccombente) sia improntata a correttezza, prudenza, buona fede, difetto di informazioni, difficoltà di conoscenza dei fatti, erroneo affidamento su condotte altrui (anche pre-processuali della controparte) e quant’altro di simile e rilevante, e cioè a situazioni del tutto antitetiche rispetto a quelle ipotizzate dalla norma, correlate all’abuso del processo; 4) del principio del giusto processo (art. 111, comma 1, Cost.), dal momento che limita il potere-dovere del giudice di rendere giustizia, anche in ordine al regolamento delle spese di lite, in modo appropriato al caso concreto, come dal medesimo esaminato e ricostruito.

VII) Un ulteriore parametro normativo che va a questo punto sottolineato – in quanto conferma la ragionevolezza del testo previgente dell’art. 92, comma 2, c.p.c. [omissis] e, in pari tempo, l’irragionevolezza del testo attualmente vigente – è inoltre il par. 3, comma 1, dell’art. 69, Regolamento di procedura della Corte di Giustizia 19 giugno 1991, che prevede la compensazione delle spese di lite per “motivi eccezionali”. Tale norma viene applicata dalla Corte di Giustizia quando vi siano valide ragioni per ritenere la “buona fede” della parte soccombente, ad esempio in dipendenza dell’oggettiva complessità della controversia ovvero in conseguenza di atteggiamenti della parte processualmente vittoriosa che abbiano ingenerato errori nell’altra parte [omissis].

9. Ciò premesso, si tratta a questo punto di valutare la condotta del ricorrente, per avere promosso la controversia ed azionato le due citate domande, risultate entrambe infondate, avuto riguardo al regime delle spese di lite e della loro possibile compensazione, quale delineato dal testo vigente dell’art. 92 c.p.c.

Prendendo in considerazione l’esito del giudizio con riferimento alla domanda principale, va detto che esso non risulta integrare, in alcun modo, una situazione di abuso del processo, evidenziando per contro, in capo al lavoratore, una condotta del tutto corretta improntata a totale buona fede.

[Omissis] La fattispecie principale non presenta in alcun modo i tratti dell’assoluta novità della questione trattata [omissis], come dimostrano le pregresse sentenze prodotte in causa dal ricorrente e citate dal Tribunale nella sentenza non definitiva.

Quanto poi all’ipotesi [omissis] del mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, [omissis] [tale: n.d.e.] locuzione [omissis] viene comunemente usata [omissis] per indicare il ribaltamento di un principio di diritto sancito dalla Corte di Cassazione [omissis], questione che [omissis], grosso modo, corrisponde al revirement nella giurisprudenza della Corte Suprema francese e all’overruling di quella inglese; [omissis] tale situazione, che attiene esclusivamente all’ambito dell’interpretazione delle norme giuridiche, non è in alcun modo riscontrabile nel caso qui in discussione [omissis], dal momento che [omissis] il particolare esito del giudizio rispetto ad alcune precedenti pronunce è del resto dipeso non dalla diversa lettura delle norme di riferimento, ma, come si è chiarito sopra, da un diverso (e non prevedibile per il ricorrente) assetto difensivo proposto dalla resistente, che rende doveroso, da parte del Tribunale, prendere in considerazione CCNL differenti da quello utilizzato in precedenti vertenze ed invocato in causa dal ricorrente [omissis].

Avuto riguardo alla domanda subordinata, si evidenzia l’oggettiva difficoltà, per il ricorrente, di prevedere le valutazioni ed i riscontri che potranno poi essere effettuati dal giudice, alla luce delle specifiche difese della resistente, al fine di stabilire se la soppressione dei trattamenti integrativi [omissis] sia o meno legittima; in entrambi i casi, quindi, ci troviamo in presenza di circostanze di difficile conoscibilità a priori, in ordine alle rispettive ragioni delle parti e a quelle della parte convenuta in particolare [omissis].

Nel contesto sopra delineato [omissis] il Tribunale non potrebbe esimersi, sulla base del disposto attualmente vigente dell’art. 92, comma 2, c.p.c., dall’obbligo di condannare il ricorrente al pagamento delle spese di lite [omissis]; ad una diversa conclusione il Tribunale potrebbe pervenire se viceversa fosse vigente il precedente testo dell’art. 92, comma 2, c.p.c. [omissis] [o: n.d.e.] se la norma attualmente vigente presentasse una formulazione di tipo esemplificativo [omissis]; quest’ultima strada [omissis] però [omissis] si colloca al di là e al di fuori dei possibili interventi interpretativi del giudice, ivi compreso quello di interpretare le norme in modo conforme a Costituzione [omissis].

Va dato atto a questo punto che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2, c.p.c. [omissis] appare senza dubbio rilevante rispetto alla porzione di giudizio non ancora decisa [omissis] [e. n.d.e.] non manifestamente infondata [omissis].

Valuterà la Corte Costituzionale se adottare una pronuncia di illegittimità costituzionale della norma denunciata, che farebbe rivivere il testo precedente, dal momento che la prima costituisce mera modifica del secondo, ovvero conservare il testo attuale, indicando con una pronuncia interpretativa di rigetto ovvero di accoglimento parziale, il percorso destinato a consentire alla norma di essere intesa come “fattispecie aperta” [omissis], così da costituire parametro di riferimento per l’individuazione di ulteriori casi, ragguagliati a quelli tipizzati sotto il profilo della “gravità ed eccezionalità”.

Il nuovo art. 92 c.p.c. al vaglio della Consulta: legittima la compensazione non discrezionale delle spese?

(1) 1. Un socio lavoratore di una cooperativa ha convenuto in giudizio la propria datrice di lavoro per sentirla condannare al pagamento: i) in via principale, delle differenze retributive dovute in ragione dell’insufficienza dei parametri indicati dai contratti collettivi nazionali di lavoro applicati nel corso del rapporto; ii) in via di subordine, dell’indennità integrativa per malattia e infortunio prevista da tale disciplina convenzionale (ove ritenuta applicabile).

Il Tribunale, pur concludendo per l’infondatezza di entrambe le domande proposte, ha messo in discussione l’obbligo (derivante anche dall’attuale tenore dell’art. 92 c.p.c.) di condannare il soccombente al pagamento delle spese di lite ex art. 91, comma 1, c.p.c.: da un lato, per l’imprevedibilità delle difese con cui la convenuta ha saputo dimostrare la congruità della retribuzione controversa (offrendo in comparazione al CTU contratti collettivi diversi da quelli utilizzati dai contrari precedenti del foro torinese); dall’altro, per la complessità delle questioni sottese alla temporanea riduzione dei trattamenti integrativi erogati dalle cooperative ex art. 6, comma 1, lett. d) ed e), l. 3 aprile 2001, n. 142.

Data l’attuale irrilevanza di tali profili d’incolpevolezza, il Giudice adito ha deciso il merito della lite con sentenza non definitiva (d’integrale rigetto), sollevando con l’annotata ordinanza la questione della legittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2, c.p.c. – come sostituito dall’art. 13, d.l. 12 settembre 2014 n. 132[1] – in funzione della residua pronuncia sulle spese del giudizio (conseguentemente sospeso ex art. 23, comma 2, l. 11 marzo 1953 n. 87).

Secondo il Tribunale, la disposizione impugnata sarebbe divenuta incostituzionale a seguito dell’eliminazione del potere discrezionale del giudice di compensare, in tutto o in parte, le spese della lite.

Il passo può dirsi epocale, considerato che, nel nostro ordinamento, tale prerogativa – prevista per esigenze di natura equitativa[2] – è sempre stata disciplinata da formulazioni normative elastiche.

Già l’art. 370, comma 2, c.p.c. 1865 consentiva di compensare le spese per “motivi giusti”[3], ai quali il codice attuale diede continuità[4], limitandosi, con il primo capoverso dell’art. 92 c.p.c., ad anteporre l’attributo al sostantivo.

Più significativo fu l’impatto dell’art. 2, comma 1, lett. a) l. 28 dicembre 2005 n. 263, che – novellando la norma in ossequio al diritto di difesa del vincitore – impose la specifica motivazione[5] della scelta di derogare[6] alla regola della soccombenza.

Successivamente, l’art. 45, comma 11, l. 18 giugno 2009 n. 69 andò per la prima volta ad incidere (con intenti restrittivi[7]) sui presupposti stessi dell’istituto, consentendo la compensazione delle spese soltanto in presenza di ragioni “gravi ed eccezionali” (dunque, non più semplicemente giuste e pur sempre palesi).

Da ultimo, il Legislatore del 2014 – senza attendere oltre il responso del diritto vivente – ha ritenuto tale disposto ancora troppo permissivo[8]; abbandonata la via dei ritocchi meramente lessicali, l’intervento normativo ha mutato la struttura stessa della disposizione, individuando in via tassativa le singole ipotesi di compensazione delle spese[9].

L’intento di limitare l’operatività dell’istituto è stato perseguito con grande decisione, nell’ottica di valorizzare il più possibile la portata deflattiva della regola della soccombenza[10] (quale strumento di responsabilizzazione della parte[11]).

L’inedita chiusura della fattispecie normativa non ha peraltro impedito di descrivere in termini assai stringenti i residui casi di compensazione delle spese – ancora eccezionalmente ammessa in ragione dell’ “assoluta novità” della questione trattata e del mutamento della giurisprudenza su profili “dirimenti”[12] – fermo restando l’ulteriore presupposto alternativo della soccombenza reciproca[13].

Il Giudice remittente ha sostenuto il contrasto della delineata disciplina con gli artt. 3, comma 1, 24, comma 1 e 111, comma 1, Cost. – anche alla luce dell’art. 69, par. 3, comma 1, Reg. Corte di Giustizia (genericamente teso ad ammettere la compensazione delle spese “per motivi eccezionali”)[14] – quale ostacolo alla correttezza etica della decisione ed irragionevole disincentivo all’azione nei casi in cui la parte non abbia modo di prevedere l’esito della lite per ragioni diverse da quelle contemplate ex lege.

Ciò, con particolare riferimento alle (altre) situazioni in passato sussumibili nell’ambito della norma impugnata, come, ad esempio[15], la disomogeneità delle precedenti soluzioni giurisprudenziali[16], la complessità delle questioni trattate[17] ed il marginale accoglimento della domanda sul piano del quantum[18].

In sintesi, la reazione si scaglia contro la scelta di abbandonare alla regola della soccombenza chi si è da sempre protetto – se e perché irreprensibile – alimentata dal sospetto del privilegio per le due sole “esimenti” rimaste (ad esempio, perché l’assenza di pronunce su di una nuova questione dovrebbe giustificare quel che un perfetto contrasto giurisprudenziale più non giustifica?).

L’accoglimento della Consulta pare improbabile, costituendo la regolamentazione delle spese processuali un problema meramente accessorio alla decisione del merito della lite[19], la cui disciplina compete alla discrezionalità del legislatore ex art. 28 l. 11 marzo 1953 n. 87[20]; anche perché le difficoltà economiche connesse all’assistenza legale rappresentano meri inconvenienti di fatto[21]; coerentemente, neppure la regola della soccombenza è imposta dalla Costituzione[22].

In altri termini, se i costi del giudizio possono erodere l’utilità cui dà accesso la vittoria processuale – ledendo così la tradizionale ratio dell’art. 91, comma 1, c.p.c.[23] – a maggior ragione ammissibile dovrebbe apparire il denunciato aggravamento della posizione del soccombente incolpevole.

Il ragionamento si rende meno persuasivo ove si consideri la materia incidentalmente toccata dalle censure del Tribunale: infatti, il contenzioso giuslavoristico può talora essere caratterizzato da asimmetria informativa[24] ai danni della parte debole; negarne ogni correttivo in sede di liquidazione delle spese potrebbe soffocare fondamentali iniziative di tutela, compromettendo l’esistenza libera e dignitosa dei cittadini (cfr. art. 36 Cost.)[25].

Del resto, con l’abrogazione del c.d. sistema tariffario – avviata dall’art. 2, comma 1, lett. a), d.l. 4 luglio 2006 n. 223[26] e completata dall’art. 9 d.l. 24 gennaio 2012 n. 1[27] – la discrezionalità espunta a valle potrebbe dirsi recuperata a monte, visto che il giudice liquida il compenso dell’avvocato in piena autonomia (anche al di sotto dei parametri minimi di cui al d.m. 10 marzo 2014 n. 55[28]).

Quantomeno sul piano empirico[29], il dato attenua la pregnanza della tesi evoluzionistica della Corte suprema secondo cui la compensazione delle spese dovrebbe essere necessariamente disciplinata attraverso una “clausola generale”, che ne consenta l’adattamento al “contesto storico-sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili “a priori“, ma da specificare in via interpretativa”[30].

Altrettanto improbabile si direbbe l’ipotizzata affermazione del carattere meramente esemplificativo della casistica di legge, posto che una tale sentenza interpretativa di rigetto – restituendo alla norma impugnata la sua tipica elasticità – degraderebbe la riforma in esame a mero intervento “estetico”, con un impatto sostanzialmente analogo a quello della pronuncia ablativa invocata dal Tribunale (ai fini del ripristino del regime previgente); in realtà, le attitudini espansive dell’art. 92, comma 2, c.p.c. appaiono fortemente limitate dalla littera legis.

Inefficace pare infine, rispetto alle perseguite finalità deflattive, il suggerimento di rendere reclamabile (anziché comunemente impugnabile) la statuizione in expensis[31].

Claudio Bechis

[1] Conv. con modif. in l. 10 novembre 2014 n. 162.

[2] Quale eccezionale temperamento del principio del victus victori: v. Luiso, Diritto processuale civile, I, Milano, 2015, 438, Mandrioli, Diritto processuale civile, I, Torino, 2015, 428, Montesano-Arieta, Trattato di diritto processuale civile, I, Padova, 2001, 579; Lupano, Responsabilità per le spese e condotta delle parti, 2013, Torino, 2013, 95 ss, Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2014, 307 e Bongiorno, Spese giudiziali, in Enc. Giur., XXX, Roma, 1993.

[3] Con l’autorevole precisazione per cui “deve intendersi che ciò non avvenga se non in caso di soccombenza reciproca”, derivando “da una tradizionale confusione di concetti l’abuso che si fa nella pratica, contrariamente ad ogni ragion d’essere dell’istituto, di ogni sorta di motivi di compensazione”: così, Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1923, rist. 1980, 202.

[4] Per un’ampia panoramica sul diritto vivente successivo all’entrata in vigore dell’art. 92, comma 2, c.p.c. v. Gualandi, Spese giudiziali, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1957, 1214 ss e 1655 ss.

[5] In precedenza anche implicitamente desumibile dalle ragioni addotte a sostegno della decisione di merito: Cass., 2 dicembre 2010, 24531, in Mass. Giur. It., 2010, Id, 31 luglio 2009, n. 17868, ivi, 2009 e Id., 27 marzo 2009, n. 7523, ibidem. In merito al relativo dibattito giurisprudenziale – e alle contraddizioni interne dell’orientamento prevalente – v. Cordopatri, Ancora sulla motivazione del provvedimento di compensazione delle spese di lite, in Riv. Dir. Proc., 2005, 1379 ss, nota a Cass., ord., 22 aprile 2005 n. 8540 e Russo, nota a Cass., S.U., 30 luglio 2008, n. 20598, in Giur. It., 2009, 1212 nonché, in prospettiva storica, Gualandi, Spese, cit., 1227 ss. Al riguardo, Scarselli, Il nuovo, cit., 51, rileva come l’ultima riscrittura dell’art. 92, comma 2, c.p.c. renda più agevoli le relative doglianze, qualora avanzate sulla base della violazione di legge ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.

[6] Cfr. Cass., 28 aprile 2014, n. 9368 in Mass. Giur. It., 2014 e Id., 20 ottobre 2014 n. 22224, ibidem, secondo cui l’applicazione dell’art. 91, comma 1, c.p.c. non richiede invece alcuna motivazione.

[7] Sul punto, scettico, Scarselli, Le modifiche in tema di spese, in Foro It., 2009, V, 262 s. Secondo il provvedimento qui annotato la riforma del 2009 avrebbe essenzialmente inteso “fornire una base legale” al diritto vivente del tempo (già positivamente fondato sul previgente art. 92, comma 2, c.p.c.). In merito alla portata esegetica della modifica normativa, v. Cass., 27 gennaio 2016, n. 1521, in Mass. Giur. It., 2016, secondo la quale “se il riferimento all’obiettiva controvertibilità della questione affrontata, in mancanza di precedenti giurisprudenziali di legittimità, poteva integrare, nel previgente regime delle spese e nel contesto della verifica del vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), un’argomentazione non incongrua, né illogica, il medesimo argomento non pare potere essere addotto come “grave ed eccezionale ragione” atta a giustificare la compensazione delle spese”.

[8] Cfr. la relazione ministeriale al d.d.l. di conv. d.l. n. 132/2014 cit., secondo cui “nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali” (per Bergamini, La compensazione delle spese ex art 92, 2° comma, cpc, in Giur. It., 2015, 1745, tanto da ribaltare il rapporto tra regola ed eccezione). Il rilievo non pare in ogni caso giustificare la ricostruzione della modifica normativa in analisi in termini di “contrasto con una prassi giudiziaria in atto”, come osservato dal Tribunale nel sostenere la “discrepanza tra il fine perseguito [in realtà, dichiaratamente diverso (v. infra nel seguito): n.d.a.] e lo strumento normativo utilizzato […] che appare pertanto viziato per eccesso di potere legislativo”.

[9] Conformemente al progetto di riforma del codice di procedura civile predisposto dalla commissione Tarzia, in Riv. Dir. Proc., 1996, 951 (punto 11), che, a latere della soccombenza reciproca, tipizzava le ipotesi della complessità della causa e della novità delle questioni decise (come vedremo, in parziale analogia con l’attuale disciplina).

[10] Come espressamente chiarito dalla citata relazione ministeriale (v. annotata ordinanza, in motivazione, punto 7). Cfr. Alunni, Il principio di causalità e la compensazione delle spese, nota a Cass., 13 gennaio 2015, n. 373, in Giur. It., 2015, 600 e 602, secondo cui anche la compensazione delle spese può disincentivare l’iniziativa giudiziale.

[11] V. Mandrioli, Diritto, cit., 428 e Verde, Diritto processuale civile, I, Bologna, 2015, 284 s.

[12] Ipotesi che Scarselli, Il nuovo, cit., 51, reputa “più teoriche che pratiche”, osservando, in particolare, come il mutamento di giurisprudenza ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c. – riguardante la regula iuris nella sua astrattezza (e non, come nella fattispecie in esame, i concreti risultati dell’accertamento giudiziale) – debba necessariamente intervenire in corso di causa. Cfr. Bergamini, La compensazione, cit., 1748.

[13] Mera specificazione della regola generale di cui all’art. 91, comma 1, c.p.c.: v. Giordano, Brevi considerazioni sulla motivazione del provvedimento di compensazione delle spese di lite, nota a Cass., 15 febbraio 2006, n. 3282, in Giust. Civ., 2006, 1166 e Luiso, Diritto, cit., 431 ss.

[14] Invero, da tempo sostituito dall’art. 138 Reg. Corte di Giustizia del 29 settembre 2012, che ammette la compensazione delle spese di lite solo più in caso di soccombenza reciproca, lasciando intendere, anche in una prospettiva de jure condendo, che, al di fuori di tale ipotesi – esattamente all’opposto di quanto sostenuto dal Remittente – la compensazione delle spese non solo può essere confinata in ipotesi tassative, ma può addirittura essere espunta dal sistema. In merito al previgente art. 69 infra cit., v. Biavati-Carpi, Diritto processuale comunitario, Milano, 1994, 123 ss.

[15] Per una più completa rassegna, v. Finocchiaro, in Richter-Richter, La giurisprudenza sul codice di procedura civile coordinata con la dottrina, a cura di Finocchiaro-Corsini, Milano, 2014, 622 ss.

[16] Cass., ord. 10 febbraio 2014 n. 2883, cit. e Id. 9 luglio 1993, n. 7535, in Mass. Giur. It., 1993. Cfr. Cass., 20 gennaio 2003, n. 770, ivi, 2003, per cui il dato perde rilievo soltanto all’affermarsi di un orientamento di legittimità.

[17] Cass., 1 dicembre 2003 n. 18352, in Mass. Giur. It., 2003, Id. 23 maggio 2003, n. 8210, ibidem e Id., S.U., 15 novembre 1994, n. 9597, ivi, 1994.

[18] V. Cass., 6 dicembre 2003, n. 18705, in Mass. Giur. It., 2003, la quale osserva che “se è vero che si discute se costituisca soccombenza reciproca l’accoglimento della domanda per un quantum inferiore al richiesto […] è anche vero che la riduzione della somma domandata (nella specie da lire 75.418.887 a lire 4.738.810) può essere presuntivamente valutata come “giusto motivo” per una parziale compensazione”. Danno prova del rilevato contrasto teorico Cass., 22 febbraio 2016, n. 3438, in Mass. Giur. It. 2016 (che, ravvisando soccombenza parziale a fronte del marginale accoglimento della domanda, compensa in parte le spese) e Id, 21 marzo 1994, n. 2653 (che esclude invece la soccombenza reciproca e cassa la decisione di gravare la parte vittoriosa dei tre quarti delle spese liquidate). Cfr. Bergamini, La compensazione, cit., 1747, secondo cui precludere la compensazione delle spese nei casi in discorso potrebbe “di fatto, tradursi in un incentivo alla formulazione di domande sproporzionate”.

[19] Così, C. Cost., ord., 30 luglio 2008 n. 314, in Giur. Cost., 2008, 4, 3389, rimarcando l’impossibilità di domandare il rimborso delle spese nell’ambito di un autonomo giudizio e la natura officiosa della relativa pronuncia.

[20] C. Cost. 4 giugno 2014 n. 157, in Giur. Cost., 2014, 2511, Id., ord. 28 novembre 2012 n. 270, ivi, 2012, Id., ord., 21 dicembre 2007 n. 446, in Giust. Civ., 2008, I, 846 e Id., ord., 2 aprile 1999, n. 117, in Foro It., 2000, I, 392.

[21] Come tali, irrilevanti nell’ambito del giudizio di legittimità costituzionale, poiché non direttamente riferibili all’astratta previsione della norma impugnata, ma connessi alla concreta applicazione della stessa: v. C. Cost. 4 giugno 2014 n. 157, cit. e Id., ord. 28 novembre 2012 n. 270, cit.

[22] V. C. Cost., ord., 21 dicembre 2007 n. 446, cit. e Id., ord., 2 aprile 1999, n. 117, cit., per le quali il rimborso delle spese processuali non rileva ai fini del diritto di agire e di difendersi in giudizio (nonché, secondo C. Cost., ord., 30 luglio 2008 n. 314, cit., per il rispetto dei principi propri del giusto processo). Cfr. C. Cost. 4 giugno 2014 n. 157, cit. e Id. 31 dicembre 1986 n. 303, ivi, 1987, I, 671. Concordi, in dottrina, Alunni, Il principio, cit., 600 e Lupano, Responsabilità per le spese, cit., 7 ss (il quale ricorda come, ad esempio, il sistema processuale statunitense prescinda dalla ripetizione delle spese di lite). Contra Luiso, op. loc. ult. cit. e Cordopatri, Ancora sulla motivazione, cit., 1384.

[23] Quale presidio di effettività della tutela giurisdizionale: v. Chiovenda, Principi, cit., 901 ss, secondo cui “il fondamento di questa condanna è il fatto oggettivo della soccombenza”, posto che “l’attuazione della legge non deve rappresentare una diminuzione patrimoniale per la parte a cui favore avviene” e con la precisazione per cui “soltanto nel momento della pronuncia in merito, quando cioè si determina la soccombenza, nasce non già il diritto del vincitore alle spese, ma l’obbligo del giudice di condannare il soccombente nelle spese stesse”. Cfr. Lupano, Responsabilità per le spese, cit., 14 ss e 97, Scarselli, Il nuovo art. 92, 2° comma, c.p.c., in Foro It., 2015, V, 50 e Alunni, Il principio, cit., 602, i quali ricordano l’attenzione che la giurisprudenza è invece solita riservare all’imputabilità del giudizio sul piano soggettivo (cfr. Cass., 13 gennaio 2015, n. 373, cit., Id., 15 luglio 2008, n. 19456, in Mas. Giur. It., 2008 e Id., 16 maggio 2003, n. 7716, ivi, 2003). Si è così delineato un sistema composito, nell’ambito del quale, con il criterio della soccombenza, concorrono quelli dell’interesse, della causalità e della colpa (v. Bongiorno, Spese giudiziali, cit., 3). Ciò, da lungo tempo e proprio attraverso la breccia discrezionale (già) assicurata dall’art. 92, comma 2, c.p.c. (v. Gualandi, Spese, cit., 1216 e 1659). L’art. 91 c.p.c. ha conseguentemente assunto tratti sanzionatori alla luce dei quali si spiega la correlazione della norma da parte del Tribunale alla repressione dell’abuso del processo (negli stessi termini, Cordopatri, Ancora sulla motivazione, cit., 1388). V’è peraltro da chiedersi che ne sarà ora di questo orientamento, posto che la tassativa previsione dei pochi casi di compensazione residui sembrerebbe eliminare in radice ogni residuo spazio di valutazione in capo al magistrato.

[24] Cfr. Cass., 27 gennaio 2015, n. 1443, in Guida al dir., 2015, 22, 59 (s.m.), Id. 28 maggio 2012 n. 8486, ivi, 2012, 31, 69, Id., S.U., 30 luglio 2008, n. 20598, cit. e n. 20599, in Mass. Giur. It., 2008, le quali, in chiave esemplificativa, annoverano tra le possibili (ex) ragioni di compensazione delle spese l’oggettiva difficoltà dell’accertamento, qualora tale da minare l’esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti.

[25] Tanto che, nei primi mesi del 2016, anche in dottrina si è levata una prima opinione d’incostituzionalità dell’art. 92, comma 2, c.p.c.: v. Scarselli, Il nuovo, cit., 51 ss, il quale – ricordando che soccombenza non sempre significa “torto” – stigmatizza l’intento di disincentivare le liti attraverso inammissibili differenze di trattamento sul piano dei diritti di azione e di difesa.

[26] Conv. con modif. in l. 4 agosto 2006 n. 248.

[27] Conv. con modif. in l. 24 marzo 2012 n. 27.

[28] Invero, il d.m. n. 55/2015 cit. – diversamente dal previgente d.m. 20 luglio 2012 n. 140, che all’art. 1, comma 7, proclamava che “in nessun caso le soglie numeriche indicate […] sia nei minimi che nei massimi […] sono vincolanti per la liquidazione stessa” – non chiarisce espressamente la portata meramente orientativa dei relativi parametri. Tuttavia, tale lacuna non può valere a far rivivere la superata vincolatività tariffaria, anche perché il nuovo decreto si cala nella stessa cornice normativa (primaria) del decreto previgente, incisa anche dal richiamato art. 2, comma 1, lett. a), d.l. n. 223/2006 cit. (che ha abrogato tutte “le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali: a) l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime”).

[29] Cfr. Scarselli, Il nuovo, cit., 53, secondo il quale il nuovo art. 92, comma 2, c.p.c., incoraggiando la liquidazione equitativamente temperata delle spese, farà sì che “ad irrazionalità, si addizionerà altra e diversa incongruenza”, considerato che l’irreprensibilità del soccombente non dovrebbe logicamente rilevare nella valutazione economica delle prestazioni legali.

[30] Data anche la rilevanza dell’“atteggiamento soggettivo del soccombente […] da valutare con riferimento al momento in cui la lite è stata introdotta”. Così Cass., ord., 24 ottobre 2014 n. 22675, in Mass. Giur. It., 2014, Id., ord. 10 febbraio 2014 n. 2883, ibidem e Id. 22 febbraio 2012 n. 2572, ivi, 2012 (già Cass., 6 agosto 1953, n. 2667, in Rep. Foro It., 1953). Concordi, in dottrina, Scarselli, Il nuovo, cit., 51 e Alunni, Il principio, cit., 602.

[31] Giordano, Brevi considerazioni, cit., 1171, ricorda in proposito l’esempio offerto dal sistema austriaco, ove la decisione sulle spese della lite è resa con apposita ordinanza, contestualmente alla sentenza che definisce il giudizio.

CASS. S.U. 17989 DEL 2016 – COMPETENZA TERRITORIALE E OBBLIGAZIONI PECUNIARIE

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione dirimono il contrasto in materia di competenza territoriale nell’ipotesi di obbligazioni pecuniarie con riferimento al forum destinatae solutionis. In sintesi, gli ermellini aderiscono alla tesi più restrittiva secondo cui “le obbligazioni pecuniarie da adempiersi al domicilio del creditore, secondo il disposto dell’articolo 1182, terzo comma, c.c. sono – sia agli effetti della mora ex re ai sensi dell’art. 1219, secondo comma, n. 3 c.c., sia nella determinazione del forum destinatae solutionis ai sensi dell’art. 20 ultima parte c.p.c. – esclusivamente quelle liquidi, della quali cioè il titolo determini l’ammontare, oppure indichi i criteri per determinarlo senza lasciare alcun margine di scelta discrezionale, e i presupposti della liquidità sono accertati dal giudice, ai fini della competenza, allo stato

degli atti secondo quanto dispone l’art. 38, ultimo comma, c.p.c.”.

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